Le frasi più belle del romanzo di Enrico Galiano "Tutta la vita che vuoi".
Più il dolore ti scende dentro, meno si vede la ferita. Come certi fiumi che scorrono sottoterra, il dolore, quando è vero, è acqua che scivola via senza far rumore, forza che erode e che laggiù cambia forma alle cose ma, da fuori, sono solo sassi e silenzio, rumore di passi sulla ghiaia, odore di secco.
«211. Quando un bambino che neanche conosci ti sorride».
Clo è un ossimoro perché è panna e petrolio. È un ossimoro perché è un sole scuro. Un casino assordante dietro uno sguardo muto. È un ossimoro perché non sa niente di quello
che vuole eppure lo sa molto bene. È un ossimoro perché il suo sorriso è sempre umido di lacrime invisibili, come ogni sua lacrima è colma di luce. Clo è un ossimoro ambulante
perché la fame di amore che ha, ha quasi sempre la forma di sguardi truci e odio, parolacce, silenzi che nessuno capisce o banchi buttati per aria. Clo è un ossimoro perché ha paura
di tutto e a tutti fa paura, è un dito medio e una mano tesa, tutte e due sempre insieme, non una o l’altra, sempre una e l’altra, dito medio e mano tesa, nello stesso momento, pezzi
di sogni su cui cammina a piedi nudi e si taglia, bianco e nero e pochissimi grigi nel mezzo, calma piatta e sudore, brividi e calore.
Cento per cento odio, cento per cento amore.
Angascia è quel tipo di angoscia così forte che ti taglia come un’ascia.
Al mondo importa poco sapere chi sei e perché fai quel che fai. Al mondo importa solo essere convinto di saperlo.
Oggi quella lotta potrebbe non essere impari. Non sa in che modo, ma sente che potrebbe succedere. Forse perché sono anni che, anche quando sa che dovrebbe arrabbiarsi, ribellarsi, alzarsi in piedi e dire qualcosa, sta sempre zitto.
Anni che viene bistrattato da cani e porci.
Anni che le prende da tutti. Senza mai dire una parola. Oggi potrebbe essere la famosa ultima goccia prima che il vaso trabocchi.
Ecco, la gente fa sempre l’errore di pensare che, se fuori c’è scritto «codice civile», nel DVD ci debba essere per forza il codice civile. In realtà non c’è quasi mai. A volte sono DVD porno, a volte horror, a volte comici e a volte non c’è proprio niente. Ma il problema della gente è che non lo scopre mai, perché nessuno ha la voglia o il tempo per andare a vedere che cosa c’è dentro.
Come se ci fosse qualcosa di male, poi, a entrare in un posto da soli.
È così bello stare soli. Certo non sempre, ma almeno un po’. Per esempio lei adora camminare da sola di notte, quando tutti dormono e il rumore di passi sui sampietrini fa quasi eco.
Peccato che ora, sua madre, è solo occhi vuoti e una mano tremante. Come se l’anima le fosse stata succhiata via. C’è, è proprio di fianco a lui, ma non c’è.
Ha sempre mantenuto un profilo basso, diciamo. Un numero sufficiente di passi indietro perché nessuno si rendesse conto della sua esistenza, ecco. Quanto basta perché nessuno si accorga di te, questo è sempre stato il suo motto. Perché se nessuno si accorge di te è più difficile che qualcuno ti faccia del male. L’invisibilità è la prima arma di difesa in tutto il regno
animale, non si vede perché non debba essere lo stesso per l’uomo.
I ragazzini di undici anni sembrano spesso ancora innocenti e incapaci di elaborare certi pensieri, ma in realtà il più delle volte arrivano al succo delle cose prima di tanti adulti.
E quello che pensano lo dicono senza pensarci troppo, risultando a volte involontariamente crudeli.
Scrivere quei biglietti è il suo modo di dilatare il tempo bello. Tenere le nuvole ferme, l’acqua lontana. Scrivere è il suo modo di fregare la pioggia, almeno per un po’.
Oltre l’ombrello piove ancora: non è che smette. E poi l’ombrello di solito si rivela difettoso, e dopo pochi secondi si rompe e le casca un sacco di acqua addosso. Ma almeno
lì sotto può stare per un attimo all’asciutto. E per qualche attimo l’asciutto che sente serve a illudersi che la pioggia abbia lasciato il posto al sole e a un cielo limpido.
Per un attimo almeno, anche se per finta, smette di piovere.
Ci sono volte in cui facciamo errori e ce ne accorgiamo solo dopo. Altre in cui l’errore è talmente palese che riusciamo a evitarlo. Infine altre in cui ci rendiamo conto che stiamo facendo l’errore del secolo proprio mentre lo stiamo commettendo.
Ci sono quelli con cui parliamo davvero e quelli con cui facciamo a turno per dire la nostra. Di solito la differenza si nota perché ai primi non serve spiegare niente, agli altri tutto.
«Quando senti che proprio non va, quando vedi che tutti si divertono e tu no, quando
senti che ogni cosa che provi a fare ti viene fuori goffa e impacciata, qual è la prima cosa che ti viene da pensare? Che sei tu quella sbagliata, giusto?».
Clo aveva annuito. Sì, era giusto.
«Ecco cosa ti dice l’albatro, cara la mia piccola Clo. Che quando senti che non funzioni, quando pensi di essere uscita male, prima pensaci: forse sei solo nel posto sbagliato.»
No, questo non è il suo posto. Non è questa casa sua. Casa è dove entri e vedi un pezzo di te in ogni cosa. Casa è dove ogni mobile, ogni quadro appeso, ogni piega delle lenzuola
parla di te.
Clo vorrebbe un posto dove la gente sorride senza motivo, per strada, un posto dove si può cantare in pubblico senza che ti guardino come pazzi e senza che cerchino sul cellulare
il numero della neuro.
Un posto dove il cuore lo puoi anche avere stampato in faccia, senza che qualcuno provi ogni due secondi a ricacciartelo dentro. O, peggio, a sfregiarlo.
Un posto dove ridere è una cosa seria, e dove la gente si ferma a guardare le cose, e non le lascia scorrere, dove la gente non diventa grande senza essere mai stata bambina, o
come non fosse mai stata bambina.
Clo vorrebbe un posto dove essere sé stessa.
Senza dover perennemente scegliere se chiedere il permesso o buttare giù la porta a calci, per farlo.
Sa come si sente. Sa benissimo come si sente. Come si sta in quell’attimo prima di decidere se fare quel passo oppure no. Lo sa perché anche lei si trova esattamente in quell’attimo
e, anche se non lo darebbe a vedere nemmeno per un milione di euro, sa perfettamente quanto è dura. Quanto è facile farsi fottere dalla paura, rinunciare e non farlo.
Aveva preso in mano un omino di Lego, e poi aveva iniziato a montare insieme alcuni mattoncini davanti all’omino: «È così che si diventa infelici, amica mia. Non tutto in
un colpo, ma piano piano. Un pezzettino alla volta, giorno dopo giorno, fino a che un bel mattino ti svegli e quei mattoncini intorno a te sono diventati una prigione».
Mentre glielo diceva, nelle sue mani i mattoncini erano diventati prima un piccolo muro, poi una vera e propria stanza chiusa, con l’omino all’interno.
«La vera tragedia non è essere infelici», le aveva detto, «è esserlo raccontandosi la balla che ci va bene così.»
«Niente. Solo che il rimpianto tira sberle molto più forti di una ragazza».
Così lui commette il secondo errore che tutti facciamo quando abbiamo qualcosa da nascondere: dire troppo.
«215. Dare un consiglio a qualcuno e poi quel qualcuno lo mette in pratica e funziona, gli sei stata d’aiuto. Il sorriso che fa quando torna da te.»
«Perché, cos’hanno gli altri adulti?» le chiese Cosimo, mentre faceva una boccaccia a una signora sulla cinquantina seduta dall’altra parte del giardino.
«Cos’hanno?! Mi stai chiedendo cos’hanno?!»
«Be’, sì.»
«Hanno che hanno gli occhi... spenti. Senza luce.
«E poi... e poi hanno che corrono e in realtà stanno fermi,sono sempre lì che corrono per andare da qualche parte, sembra sempre tutto un affare di stato, anche solo andare a
comprare il pane, e io non capisco, che cavolo, come fanno a correre così veloce e a sembrarmi invece così immobili? Eh? Come fanno?»
“Quando vedi qualcosa che ti tocca dentro, devi fare solo una cosa: facci caso. Non lasciarla scorrere come se niente fosse. E fallo tutte le volte che puoi”.
I segreti, quando li confessi, ti possono far sentire in due modi: più solo, oppure meno solo.
Dentro quei biglietti strappati e accartocciati come vecchi scontrini non c’è solo felicità, c’è molto di più, non è tutto dolcezza e tranquillità e pace, col cavolo, perché in quegli istanti c’è anche dolore, è lì nascosto acquattato in quegli attimi, e non è neanche un dolore da poco,
perché mentre li vivi sai che sono attimi, che arrivano e svaniscono: è cielo che diventa azzurro e smette di scrosciare pioggia per un secondo, ma sai già che sarà solo un secondo.
Sono attimi che decidono da soli quando farsi vivi: tu puoi anche metterti lì a rovistare nel mondo in cerca di cose da scrivere sui biglietti ma saranno sempre loro a venirti addosso,
quando meno te lo aspetti, e faranno bene e faranno male, tutto insieme, bene e male, ed è per questo che ogni volta lei si ferma e si mette a fotografarli dentro un foglietto di carta
stropicciato: perché tutto sa fare mediamente schifo, quando vuole, va bene, e quasi tutto intorno a Clo non sono colori ma solo tante scale di grigio eppure, eppure, ci sono
momenti in cui senza preavviso ti ritrovi davanti tutta la vita che c’è in un istante.
Tutta la vita che c’è, in un istante.
Scappiamo tutti da qualcosa. E quel qualcosa, quasi sempre, sono due occhi.
«217. La sensazione di vertigine che ti prende quando senti che stai iniziando a voler bene a qualcuno».
Per quegli occhi di vetro che sembrano finestre di case vuote.
Fidarsi delle persone è scommettere quando sei già sotto. Magari lo fai per stare un po’ meglio, o perché ti sembra che quella persona ti possa salvare, ma se poi perdi la scommessa finisci per stare peggio di come stavi prima.
Finché non vengono messi nella gabbia di una definizione non ci sono cose che si possono fare e cose che non si possono fare, non ci sono linee e confini, riescono a sprigionare come una forza in più, sono un campo libero, possibilità, i sentimenti chiusi nella gabbia di
un nome sono fogli in cui puoi solo mettere delle crocette, mentre quello che prova lui oggi, i sentimenti senza nome, è avere un foglio totalmente bianco sotto gli occhi e la possibilità
di scriverci quello che vuole, proprio tutto quello che vuole, e di scrivere anche fuori dal foglio. Sul banco, sulla parete, dove vuole.
Sono sentimenti che esistono finché non hanno nome.
Se non hai mai vissuto, mai davvero, il primo giorno in cui sei vivo non dura solo un giorno.
Sì, dentro quel giorno ci sono ventiquattro ore e dentro ogni singola ora sessanta minuti, così come dentro ogni singolo minuto ci sono sessanta secondi, come in tutti gli altri
giorni della tua vita, ma il fatto nudo e crudo è che dentro ognuno di quei sessanta secondi, dentro i minuti dentro le ore, be’, ognuno di quelli può valere come un giorno intero.
Perché, be’. Ci sono mani che ti possono toccare solo dove ti stanno toccando. E mani che, quando ti toccano, non ti toccano solo lì.
Certo, magari quella mano sta solo passando sul tuo viso, o sul braccio, o sul collo, ma il fatto nudo e crudo è che quelle dita stanno anche toccando tutte le volte che non è successo, tutte le volte che eri lì e non ti vedevano, tutte le volte che hai parlato e non ti sentivano, e poi lì dentro stanno toccando anche tutte le volte in cui l’unico modo che gli altri avevano di toccarti erano pugni, e graffi, e schiaffi; quella mano che ti tocca solo viso, mani e collo non ti tocca
solo viso, mani e collo, ma ti tocca anche i pensieri brutti, tutti quelli che hai sempre fatto, i sogni da cui ti svegliavi sudato e spaventato, le notti in cui non dormivi; quella mano ti tocca e fa quello che tutte le mani che toccano dovrebbero fare: si fa sentire.
Quella mano si fa sentire, anche dove pensavi di non poter nemmeno sentire più.
È stata una specie di tempesta di vento che ti rompe i vetri e ti frantuma le finestre e ti butta tutti i mobili per aria, ti spacca le cose, ti fa cadere i quadri dalle pareti, ti sposta tutto quello che hai dentro la tua stanza, e poi quando la tempesta finisce tu entri e scopri che le cose, messe come sono adesso, spostate dal vento, sono dove avrebbero sempre
dovuto essere.
Anche quelle rotte, anche quelle distrutte, sono come avrebbero sempre dovuto essere.
219. L’istante in cui chiudi gli occhi prima di baciare qualcuno con tutta la voglia del mondo.
No, non gli chiederà niente. A lei non piace quando la gente entra in casa sua senza chiederle permesso. È lei che deve decidere a chi aprire la porta. A chi dare le chiavi dei
luoghi più nascosti di sé.
Dare le chiavi di quei luoghi è forse la cosa più difficile da fare, secondo Clo. La più bella, ma la più difficile. Al mondo, proprio.
La gente entra in casa tua e inizia a fare commenti e rompere cose, il più delle volte. Ed è solo quando trovi qualcuno che ti entra in casa e poi se ne esce lasciando tutto com’è, che sai di aver trovato qualcuno di veramente speciale.
La cosa veramente difficile non è fare tanta strada, ma costruirne una nuova. Anche piccola, anche stretta, anche piena di buche: ma nuova.
Tutti dovrebbero avere uno scudo, pensa Giorgio De Santis. Non qualcuno che si metta lì ogni volta a tirarci fuori dai guai, o a difenderci dalle offese. Tutto questo ci renderebbe solo delle pappemolli incapaci di difenderci da soli. No: uno scudo è una persona che ti protegge anche quando non c’è. Una persona che ti basta sapere che è da qualche parte nel mondo, anche in Australia o chissà dove, e riesce lo stesso a essere la tua armatura d’acciaio. A mettere uno spazio tra te e il mondo, uno spazio in cui niente può farti davvero paura.
Oltre lo scudo, là fuori, continuano a volare frecce, le spade non smettono di mollare fendenti e fare male: ma tu sai che c’è quel posto, tra te e il mondo, in cui nessuno ti può toccare.
Quello è uno scudo.
E il dolore, ogni dolore, rivela pezzi di te che nemmeno tu avresti mai pensato ti appartenessero. Alcuni meravigliosi, altri orribili. Ma tuoi.
Ci sono ferite che si rimarginano e spariscono, e ferite che lasciano un segno. Poi ci sono anche le ferite che restano aperte per sempre.
«220. Gli abbracci. Quelli che durano tanto. Quelli che a un certo punto ti verrebbe da addormentarti lì dentro, e magari parli ma non si sente bene perché la bocca ce l’hai conficcata sulla spalla dell’altra
persona. Quelli lì».
Ritorno al futuro le è piaciuto perché quello che ci vuole dire il film è che il passato non se ne sta fermo lì, fisso, immobile come una statua di bronzo: il passato può cambiare. Il presente,
anche senza spostare nulla, anche lasciando la storia così com’è, può trasformare tutto: semplicemente cambiando un po’ la prospettiva, anche ciò che è già successo, anche
ciò che sembrava immutabile può diventare un’altra cosa. Migliore, se hai abbastanza fortuna.
Perfino quello che sembrava doverci condizionare per sempre.
No: il passato lo puoi ancora cambiare, semplicemente spostando la prospettiva. E se riesci a cambiare il tuo passato, be’, cambia anche il tuo presente.
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